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domenica 16 marzo 2014

Errori giudiziari, la giustizia italiana colpisce ancora: il caso di Sandro Zorzi.

Sandro Zorzi, tenete bene a mente questo nome. E’ quello di un prossimo errore giudiziario.
Di una futura vittima della malagiustizia italiana che, come “l’impero del male” di guerre stellari, con lui “ha colpito ancora”. Per ora, in attesa di entrare nell'indispensabile database del sito Errorigiudiziari.com gestito dai due giornalisti di inchiesta Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone, Zorzi si “accontenta” di essere stato riconosciuto innocente dopo due gradi di giudizio e tre anni e mezzo di carcerazione preventiva, dalla terribile accusa di avere ucciso Fabio Lorenzon. Che era il suo migliore amico, ritrovato il 24 settembre 2009 in una macchina sprofondata nella “marrana” vicino a Maccarese, intorno a Roma.


domenica 5 gennaio 2014

ALIVISION: UNA SINGOLARE RICHIESTA DI FALLIMENTO !




mercoledì 18 settembre 2013

Un Riepilogo degli Articoli sulla Giustizia !




domenica 15 settembre 2013

CLAMOROSO: Tutti gli Errori Giudiziari !

ESCLUSIVO - Per la prima volta tutti i numeri degli errori giudiziari

Errori giudiziari statistiche
Pubblichiamo le statistiche ufficiali complete del ministero dell’Economia e delle Finanze sugli innocenti in carcere, anno per anno, dal 1989 a oggi. In vent’anni, quasi 600 milioni di euro spesi. E l’equivalente di una città come Ascoli Piceno o Chieti in carcere senza colpa.

Ingiusta detenzione, in Sicilia 50 milioni di euro in risarcimenti

palermo palazzo di giustizia
Nell’isola si verificano circa il 15% del totale dei casi nazionali: 1500 negli ultimi 8 anni, per una media di 34 mila euro a ciascun innocente

“Mai violentata quella ragazza”: il processo si rifarà

AgatinoGiammona
Accolta la richiesta di revisione per Agatino Giammona, in carcere con sentenza definitiva dal giugno 2011, per una violenza sessuale che giura di non aver mai commesso. Decisive le nuove prove a favore dell’imprenditore siciliano, che ne dimostrerebbero l’assoluta estraneità ai fatti

Ottaviano Del Turco: vorrei vivere altri 5 anni per riabilitare il mio onore

Ottaviano-Del-Turco-Imagoeconomica
Dopo la condanna, l’ex governatore dell’Abruzzo svela di avere un tumore e paragona la sua vicenda giudiziaria a quella di Enzo Tortora

Sei stato in carcere da innocente? Raccontaci la tua storia!

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Errorigiudiziari.com vuole raccogliere quanti più casi possibili di errori giudiziari e ingiusta detenzione, per dare voce anche a coloro cui i mass media non hanno riservato lo stesso risalto delle vicende più famose di malagiustizia

Assolto dall’accusa di sfruttamento della prostituzione, muore per virus contratto in carcere

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Il calvario del 23enne nigeriano inizia con l’arresto del 1 febbraio del 2011. Un errore giudiziario, come stabilirà 16 mesi dopo il Tribunale. Ma è da lì che parte la catena di eventi terminata con il suo decesso

Massacro di Ponticelli, rigettata di nuovo la revisione del processo ai tre «mostri»

Barbara e Nunzia, le bambine seviziate e uccise a Ponticelli nel 1983
Da 30 anni (di cui 27 passati in carcere) Giuseppe La Rocca, Luigi Schiavo e Ciro Imperante si dichiarano innocenti. Per la terza volta hanno chiesto la revisione del processo, ma la quarta sezione della Corte d’Appello di Roma ha respinto nuovamente la loro richiesta

Texas, sì alla legge contro gli errori giudiziari

Michael Morton Act errori giudiziari
Si chiama “Michael Morton Act”, entrerà in vigore il 1° settembre e consentirà ai difensori di avere accesso a tutti gli atti afferenti al processo, compresi gli interrogatori di polizia e le testimonianze raccolte durante le indagini

Il caso Tortora, trent’anni dopo

Enzo Tortora il giorno dell'arresto
Venticinque anni fa moriva il popolare conduttore televisivo. Cinque anni prima, nel giugno del 1983, era stato arrestato. Le accuse dei pentiti, la gogna pubblica, l’assoluzione in Cassazione, la malattia e la morte. Per quello che Giorgio Bocca definì “il più grande esempio di macelleria giudiziaria” nessuno ha mai pagato

Il cattivo detective che incastrava gli innocenti

Louis-Scarcella
La discussa carriera di Louis Scarcella, ex investigatore della polizia di New York. Prove dubbie e falsi testimoni. Riaperti 50 casi negli Stati Uniti

domenica 8 settembre 2013

Magistrati e Magistratura !




Ecco i Nostri Giudici !!!




giovedì 10 gennaio 2013

Psichiatri, Assistenti Sociali, Consulenti, Giudici !


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Roma, bimba separata dalla mamma denunciata consulente del Tribunale

Non sarebbe stata imparziale e obiettiva nelle sue valutazioni
da IL MESSAGGERO - Articolo completo qui
ROMA - La consulente d'ufficio del Tribunale per i minorenni di Roma, Marisa Togliatti Malagoli, è stata denunciata alla Procura di Roma per operato «illecito ed illegittimo» nell'ambito di una perizia psicologica che ha svolto nel caso di una bimba contesa fra genitori. 
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lunedì 22 ottobre 2012

Sconvolgente Intervista al Giudice Edoardo Mori

QUESTA LA DOVREBBERO LEGGERE TUTTI I CITTADINI ITALIANI
Questa sconvolgente intervista ce l’ha fatta Pasquale De Feo.
E’ un clamoroso atto di denuncia del sistema giudiziario italiano, fatto da chi -Edoardo Mori, magistrato lo è stato -in modo instancabile e apprezzatissimo- per 42 anni.
Magistrati, alzatevi! Stavolta gli imputati siete voi e a processarvi è un vostro collega, il giudice Edoardo Mori. Che un anno fa, come in questi giorni, decise di strapparsi di dosso la toga, disgustato dall'impreparazione e dalla faziosità regnanti nei palazzi di giustizia. «Sarei potuto rimanere fino al 2014, ma non ce la facevo più a reggere l’idiozia delle nuove leve che sui giornali e nei tiggi incarnano il volto della magistratura. Meglio la pensione».

Per 42 anni il giudice Mori ha servito lo Stato tutti i santi i giorni, mai un’assenza, a parte la settimana in cui il figlioletto Daniele gli attaccò il morbillo; prima per otto anni pretore a Chiavenna, in Valtellina, e poi dal 1977 giudice istruttore, giudice per le indagini preliminari, giudice fallimentare (il più rapido d’Italia, attesta il ministero della Giustizia), nonché presidente del Tribunale della libertà, a Bolzano, dov’è stato protagonista dei processi contro i terroristi sudtirolesi, ha giudicato efferati serial killer come Marco Bergamo (cinque prostitute sgozzate a coltellate), s’è occupato d’ogni aspetto giurisprudenziale a esclusione solo del diritto di famiglia e del lavoro.

Con un’imparzialità e una competenza che gli vengono riconosciute persino dai suoi nemici. Ovviamente se n’è fatti parecchi, esattamente come suo padre Giovanni, che da podestà di Zeri, in Lunigiana, nel 1939 mandò a farsi friggere Benito Mussolini, divenne antifascista e ospitò per sei mesi in casa propria i soldati inglesi venuti a liberare l’Italia.
Mori confessa d’aver tirato un sospirone di sollievo il giorno in cui s’è dimesso: «Il sistema di polizia, il trattamento dell’imputato e il rapporto fra pubblici ministeri e giudice sono ancora fermi al 1930. Le forze dell’ordine considerano delinquenti tutti gli indagati, i cittadini sono trattati alla stregua di pezze da piedi, spesso gli interrogatori degenerano in violenza. Il Pm gioca a fare il commissario e non si preoccupa di garantire i diritti dell’inquisito. E il Gip pensa che sia suo dovere sostenere l’azione del Pm».

Da sempre studioso di criminologia e scienze forensi, il dottor Mori è probabilmente uno dei rari magistrati che già prima di arrivare all’università si erano sciroppati il Trattato di polizia scientifica di Salvatore Ottoleghi (1910) e il Manuale del giudice istruttore di Hans Gross (1908). Le poche lire di paghetta le investiva in esperimenti su come evidenziare le impronte digitali utilizzando i vapori di iodio. Non c’è attività d’indagine (sopralluoghi, interrogatori, perizie, autopsie, Dna, rilievi dattiloscopici, balistica) che sfugga alle conoscenze scientifiche dell’ex giudice, autore di una miriade di pubblicazioni, fra cui il Dizionario multilingue delle armi, il Codice delle armi e degli esplosivi e il Dizionario dei termini giuridici e dei brocardi latini che vengono consultati da polizia, carabinieri e avvocati come se fossero tre dei 73 libri della Bibbia.

Nato a Milano nel 1940, nel corso della sua lunga carriera Mori ha firmato almeno 80.000 fra sentenze e provvedimenti, avendo la soddisfazione di vederne riformati nei successivi gradi di giudizio non più del 5 per cento, un’inezia rispetto alla media, per cui gli si potrebbe ben adattare la frase latina che Sant’Agostino nei suoi Sermones riferiva alle questioni sottoposte al vaglio della curia romana o dello stesso pontefice: «Roma locuta, causa finita». Il dato statistico può essere riportato solo perché Mori è uno dei pochi, o forse l’unico in Italia, che ha sempre avuto la tigna di controllare periodicamente com’erano andati a finire i casi passati per le sue mani: «Di norma ai giudici non viene neppure comunicato se le loro sentenze sono state confermate o meno. Un giudice può sbagliare per tutta la vita e nessuno gli dice nulla. La corporazione è stata di un’abilità diabolica nel suddividere le eventuali colpe in tre gradi di giudizio. Risultato: deresponsabilizzazione totale. Il giudice di primo grado non si sente sicuro? Fa niente, condanna lo stesso, tanto – ragiona – provvederà semmai il collega in secondo grado a metterci una pezza. In effetti i giudici d’appello un tempo erano eccellenti per prudenza e preparazione, proprio perché dovevano porre rimedio alle bischerate commesse in primo grado dai magistrati inesperti. Ma oggi basta aver compiuto 40 anni per essere assegnati alla Corte d’appello. Non parliamo della Cassazione: leggo sentenze scritte da analfabeti».

Soprattutto, se il giudice sbaglia, non paga mai. «La categoria s’è autoapplicata la regola che viene attribuita all’imputato Stefano Ricucci: “È facile fare il frocio col sedere degli altri”. Le risulta che il Consiglio superiore della magistratura abbia mai condannato i giudici che distrussero Enzo Tortora? E non parliamo delle centinaia di casi, sconosciuti ai più, conclusi per l’inadeguatezza delle toghe con un errore giudiziario mai riparato: un innocente condannato o un colpevole assolto. In compenso il Csm è sempre solerte a bastonare chi si arrischia a denunciare le manchevolezze delle Procure».

Il dottor Mori parla con cognizione di causa: ha dovuto subire ben sei provvedimenti disciplinari e tutti per aver criticato l’operato di colleghi arruffoni e incapaci. «Dopo aver letto una relazione scritta per un pubblico ministero pugliese, con la quale il perito avrebbe fatto condannare un innocente sulla base di rivoltanti castronerie, mi permisi di scrivere al procuratore capo, avvertendolo che quel consulente stava per esporlo a una gran brutta figura. Ebbene, l’emerita testa mi segnalò per un procedimento disciplinare con l’accusa d’aver “cercato di influenzarlo” e un’altra emerita testa mi rinviò a giudizio. Ogni volta che ho segnalato mostruosità tecniche contenute nelle sentenze, mi sono dovuto poi giustificare di fronte al Csm. E ogni volta l’organo di autogoverno della magistratura è stato costretto a prosciogliermi. Forse mi ha inflitto una censura solo nel sesto caso, per aver offuscato l’immagine della giustizia segnalando che un incolpevole cittadino era stato condannato a Napoli. Ma non potrei essere più preciso al riguardo, perché, quando m’è arrivata l’ultima raccomandata dal Palazzo dei Marescialli, l’ho stracciata senza neppure aprirla. Delle decisioni dei supremi colleghi non me ne fregava più nulla».

–Perché ha fatto il magistrato?

«Per laurearmi in fretta, visto che in casa non c’era da scialare. Fin da bambino me la cavavo un po’ in tutto, perciò mi sarei potuto dedicare a qualsiasi altra cosa: chimica, scienze naturali e forestali, matematica, lingue antiche. Già da pretore mi documentavo sui testi forensi tedeschi e statunitensi e applicavo regole che nessuno capiva. Be’, no, a dire il vero uno che le capiva c’era: Giovanni Falcone».

–Il magistrato trucidato con la moglie e la scorta a Capaci.

«Mi portò al Csm a parlare di armi e balistica. Ma poi non fui più richiamato perché osai spiegare che molti dei periti che i tribunali usavano come oracoli non erano altro che ciarlatani. Ciononostante questi asini hanno continuato a istruire i giovani magistrati e i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Ma guai a parlar male dei periti ai Pm: ti spianano. Pensi che uno di loro, utilizzato anche da un’università romana, è riuscito a trovare in un residuo di sparo tracce di promezio, elemento chimico non noto in natura, individuato solo al di fuori del sistema solare e prodotto in laboratorio per decadimento atomico in non più di 10 grammi».

–Per quale motivo i pubblici ministeri scambiano i periti per oracoli?

«Ma è evidente! Perché ».

–Ci sarà ben un organo che vigila sull’operato dei periti.

«Nient’affatto, in Italia manca totalmente un sistema di controllo. Quando entrai in magistratura, nel 1968, era in auge un perito che disponeva di un’unica referenza: aver recuperato un microscopio abbandonato dai nazisti in fuga durante la seconda guerra mondiale. Per ottenere l’inserimento nell’albo dei periti presso il tribunale basta essere iscritti a un ordine professionale. Per chi non ha titoli c’è sempre la possibilità di diventare perito estimatore, manco fossimo al Monte di pietà. Ci sono marescialli della Guardia di finanza che, una volta in pensione, ottengono dalla Camera di commercio il titolo di periti fiscali e con quello vanno a far danni nelle aule di giustizia».

–Sono sconcertato.

«Anche lei può diventare perito: deve solo trovare un amico giudice che la nomini. I tribunali rigurgitano di tuttologi, i quali si vantano di potersi esprimere su qualsiasi materia, dalla grafologia alla dattiloscopia. Spesso non hanno neppure una laurea. Nel mondo anglosassone vi è una tale preoccupazione per la salvaguardia dei diritti dell’imputato che, se in un processo si scopre che un perito ha commesso un errore, scatta il controllo d’ufficio su tutte le sue perizie precedenti, fino a procedere all’eventuale revisione dei processi. In Italia periti che hanno preso cantonate clamorose continuano a essere chiamati da Pm recidivi e imperterriti, come se nulla fosse accaduto».

–Può fare qualche caso concreto?

«Negli accertamenti sull’attentato a Falcone vennero ricostruiti in un poligono di tiro – con costi miliardari, parlo di lire – i 300 metri dell’autostrada di Capaci fatta saltare in aria da Cosa nostra, per scoprire ciò che un esperto già avrebbe potuto dire a vista con buona approssimazione e cioè il quantitativo di esplosivo usato. È chiaro che ai fini processuali poco importava che fossero 500 o 1.000 chili. Molto più interessante sarebbe stato individuare il tipo di esplosivo. Dopo aver costruito il tratto sperimentale di autostrada, ci si accorse che un manufatto recente aveva un comportamento del tutto diverso rispetto a un manufatto costruito oltre vent’anni prima. Conclusione: quattrini gettati al vento. Nel caso dell’aereo Itavia, inabissatosi vicino a Ustica nel 1980, gli esami chimici volti a ricercare tracce di esplosivi su reperti ripescati a una profondità di circa 3.500 metri vennero affidati a chimici dell’Università di Napoli, i quali in udienza dichiararono che tali analisi esulavano dalle loro competenze. Però in precedenza avevano riferito di aver trovato tracce di T4 e di Tnt in un sedile dell’aereo e questa perizia ebbe a influenzare tutte le successive pasticciate indagini, orientate a dimostrare che su quel volo era scoppiata una bomba. Vuole un altro esempio di imbecillità esplosiva?».

–Prego. Sono rassegnato a tutto.

«Per anni fior di magistrati hanno cercato di farci credere che il plastico impiegato nei più sanguinosi attentati attribuiti all’estrema destra, dal treno Italicus nel 1974 al rapido 904 nel 1984, era stato recuperato dal lago di Garda, precisamente da un’isoletta, Trimelone, davanti al litorale fra Malcesine e Torri del Benaco, militarizzata fin dal 1909 e adibita a santabarbara dai nazisti. Al processo per la strage di Bologna l’accusa finì nel ridicolo perché nessuno dei periti s’avvide che uno degli esplosivi, asseritamente contenuti nella valigia che provocò l’esplosione e che pareva fosse stato ripescato nel Benaco dai terroristi, era in realtà contenuto solo nei razzi del bazooka M20 da 88 millimetri di fabbricazione statunitense, entrato in servizio nel 1948. Un po’ dura dimostrare che lo avessero già i tedeschi nel 1945».

–Ormai non ci si può più fidare neppure dell’esame del Dna, basti vedere la magra figura rimediata dagli inquirenti nel processo d’appello di Perugia per l’omicidio di Meredith Kercher.

«Si dice che questo esame presenti una probabilità d’errore su un miliardo. Falso. Da una ricerca svolta su un database dell’Arizona, contenente 65.000 campioni di Dna, sono saltate fuori ben 143 corrispondenze. Comunque era sufficiente vedere i filmati in cui uno degli investigatori sventolava trionfante il reggiseno della povera vittima per capire che sulla scena del delitto era intervenuta la famigerata squadra distruzione prove. A dimostrazione delle cautele usate, il poliziotto indossava i guanti di lattice. Restai sbigottito vedendo la scena al telegiornale. I guanti servono per non contaminare l’ambiente col Dna dell’operatore, ma non per manipolare una possibile prova, perché dopo due secondi che si usano sono già inquinati. Bisogna invece raccogliere ciascun reperto con una pinzetta sterile e monouso. I guanti non fanno altro che trasportare Dna presenti nell’ambiente dal primo reperto manipolato ai reperti successivi. E infatti adesso salta fuori che sul gancetto del reggipetto c’era il Dna anche della dottoressa Carla Vecchiotti, una delle perite che avrebbero dovuto isolare con certezza le eventuali impronte genetiche di Raffaele Sollecito e Amanda Knox. Non è andata meglio a Cogne».

–Cioè?

«In altri tempi l’indagine sulla tragica fine del piccolo Samuele Lorenzi sarebbe stata chiusa in mezza giornata. Gli infiniti sopralluoghi hanno solo dimostrato che quelli precedenti non erano stati esaustivi. Il sopralluogo è un passaggio delicatissimo, che non consente errori. Gli accessi alla scena del delitto devono essere ripetuti il meno possibile perché ogni volta che una persona entra in un ambiente introduce qualche cosa e porta via altre cose. Ma il colmo dell’ignominia è stato toccato nel caso Marta Russo».

–Si riferisce alle prove balistiche sul proiettile che uccise la studentessa nel cortile dell’Università La Sapienza di Roma?

«E non solo. S’è preteso di ricostruire la traiettoria della pallottola avendo a disposizione soltanto il foro d’ingresso del proiettile su un cranio che era in movimento e che quindi poteva rivolgersi in infinite direzioni. In tempi meno bui, sui libri di geometria del ginnasio non si studiava che per un punto passano infinite rette? Dopodiché sono andati a grattare il davanzale da cui sarebbe partito il colpo e hanno annunciato trionfanti: residui di polvere da sparo, ecco la prova! Peccato che si trattasse invece di una particella di ferodo per freni, di cui l’aria della capitale pullula a causa del traffico. La segretaria Gabriella Alletto è stata interrogata 13 volte con metodi polizieschi per farle confessare d’aver visto in quell’aula gli assistenti Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro. Uno che si comporta così, se non è un pubblico ministero, viene indagato per violenza privata. Un Pm non può usare tecniche da commissario di pubblica sicurezza, anche se era il metodo usato da Antonio Di Pietro, che infatti è un ex poliziotto».

–Un sistema che ha fatto scuola.

«La galera come mezzo di pressione sui sospettati per estorcere confessioni. Le manette sono diventate un moderno strumento di tortura per acquisire prove che mancano e per costringere a parlare chi, per legge, avrebbe invece diritto a tacere».

–Che cosa pensa delle intercettazioni telefoniche che finiscono sui giornali?

«Non serve una nuova legge per vietare la barbarie della loro indebita pubblicazione. Quella esistente è perfetta, perché ordina ai Pm di scremare le intercettazioni utili all’indagine e di distruggere le altre. Tutto ciò che non riguarda l’indagato va coperto da omissis in fase di trascrizione. Nessuno lo fa: troppa fatica. Ci vorrebbe una sanzione penale per i Pm. Ma cane non mangia cane, almeno in Italia. In Germania, invece, esiste uno specifico reato. Rechtsverdrehung, si chiama. È lo stravolgimento del diritto da parte del giudice».

–Come mai la giustizia s’è ridotta così?

«Perché, anziché cercare la prova logica, preferisce le tesi fantasiose, precostituite. Le statistiche dimostrano invece che nella quasi totalità dei casi un delitto è banale e che è assurdo andare in cerca di soluzioni da romanzo giallo. Lei ricorderà senz’altro il rasoio di Occam, dal nome del filosofo medievale Guglielmo di Occam».

–In un ragionamento tagliare tutto ciò che è inutile.

«Appunto. Le regole logiche da allora non sono cambiate. Non vi è alcun motivo per complicare ciò che è semplice. Il “cui prodest?” è risolutivo nel 50 per cento dei delitti. Chi aveva interesse a uccidere? O è stato il marito, o è stata la moglie, o è stato l’amante, o è stato il maggiordomo, vedi assassinio dell’Olgiata, confessato dopo 20 anni dal cameriere filippino Manuel Winston. Poi servono i riscontri, ovvio. In molti casi la risposta più banale è che proprio non si può sapere chi sia l’autore di un crimine. Quindi è insensato volerlo trovare per forza schiaffando in prigione i sospettati».

–Ma perché si commettono tanti errori nelle indagini?

«I giudici si affidano ai laboratori istituzionali e ne accettano in modo acritico i responsi. Nei rari casi in cui l’indagato può pagarsi un avvocato e un buon perito, l’esperienza dimostra che l’accertamento iniziale era sbagliato. I medici i loro errori li nascondono sottoterra, i giudici in galera. Paradigmatico resta il caso di Ettore Grandi, diplomatico in Thailandia, accusato nel 1938 d’aver ucciso la moglie che invece si era suicidata. Venne assolto nel 1951 dopo anni di galera e ben 18 perizie medico-legali inconcludenti».

–E si ritorna alla conclamata inettitudine dei periti.

«L’indagato innocente avrebbe più vantaggi dall’essere giudicato in base al lancio di una monetina che in base a delle perizie. E le risparmio l’aneddotica sulla voracità dei periti».

–No, no, non mi risparmi nulla.

«Vengono pagati per ogni singolo elemento esaminato. Ho visto un colonnello, incaricato di dire se 5.000 cartucce nuove fossero ancora utilizzabili dopo essere rimaste in un ambiente umido, considerare ognuna delle munizioni un reperto e chiedere 7.000 euro di compenso, che il Pm gli ha liquidato: non poteva spararne un caricatore? Ho visto un perito incaricato di accertare se mezzo container di kalashnikov nuovi, ancora imballati nella scatola di fabbrica, fossero proprio kalashnikov. I 700-800 fucili mitragliatori sono stati computati come altrettanti reperti. Parcella da centinaia di migliaia di euro. Per fortuna è stata bloccata prima del pagamento».

–In che modo se ne esce?

«Nel Regno Unito vi è il Forensic sciences service, soggetto a controllo parlamentare, che raccoglie i maggiori esperti in ogni settore e fornisce inoltre assistenza scientifica a oltre 60 Stati esteri. Rivolgiamoci a quello. Dispone di sette laboratori e impiega 2.500 persone, 1.600 delle quali sono scienziati di riconosciuta autorità a livello mondiale».

–E per le altre magagne?

«In Italia non esiste un testo che insegni come si conduce un interrogatorio. La regola fondamentale è che chi interroga non ponga mai domande che anticipino le risposte o che lascino intendere ciò che è noto al pubblico ministero o che forniscano all’arrestato dettagli sulle indagini. Guai se il magistrato fa una domanda lunga a cui l’inquisito deve rispondere con un sì o con un no. Una palese violazione di questa regola elementare s’è vista nel caso del delitto di Avetrana. Il primo interrogatorio di Michele Misseri non ha consentito di accertare un fico secco perché il Pm parlava molto più dello zio di Sarah Scazzi: bastava ascoltare gli scampoli di conversazione incredibilmente messi in onda dai telegiornali. Ci sarebbe molto da dire anche sulle autopsie».

–Ci provi.

«È ormai routine leggere che dopo un’autopsia ne viene disposta una seconda, e poi una terza, quando non si riesumano addirittura le salme sepolte da anni. Ciò dimostra solamente che il primo medico legale non era all’altezza. Io andavo di persona ad assistere agli esami autoptici, spesso ho dovuto tenere ferma la testa del morto mentre l’anatomopatologo eseguiva la craniotomia. Oggi ci sono Pm che non hanno mai visto un cadavere in vita loro».

–Ma in mezzo a questo mare di fanghiglia, lei com’è riuscito a fare il giudice per 42 anni, scusi?

«Mi consideri un pentito. E un corresponsabile. Anch’io ho abusato della carcerazione preventiva, ma l’ho fatto, se mai può essere un’attenuante, solo con i pregiudicati, mai con un cittadino perbene che rischiava di essere rovinato per sempre. Mi autoassolvo perché ho sempre lavorato per quattro. Almeno questo, tutti hanno dovuto riconoscerlo».

–Non è stato roso dal dubbio d’aver condannato un innocente?

«Una volta sì. Mi ero convinto che un impiegato delle Poste avesse fatto da basista in una rapina. Mi fidai troppo degli investigatori e lo tenni dentro per quattro-cinque mesi. Fu prosciolto dal tribunale».

–Gli chiese scusa?

«Non lo rividi più, sennò l’avrei fatto. Lo faccio adesso. Ma forse è già morto».

Intervistato sul Corriere della Sera da Indro Montanelli nel 1959, il giorno dopo essere andato in pensione, il presidente della Corte d’appello di Milano, Manlio Borrelli, padre dell’ex procuratore di Mani pulite, osservò che «in uno Stato bene ordinato, un giudice dovrebbe, in tutta la sua carriera e impegnandovi l’intera esistenza, studiare una causa sola e, dopo trenta o quarant’anni, concluderla con una dichiarazione d’incompetenza».
«In Germania o in Francia non si parla mai di giustizia. Sa perché? Perché funziona bene. I magistrati sono oscuri funzionari dello Stato. Non fanno né gli eroi né gli agitatori di popolo. Nessuno conosce i loro nomi, nessuno li ha mai visti in faccia».

Si dice che il giudice non dev’essere solo imparziale: deve anche apparirlo. Si farebbe processare da un suo collega che arriva in tribunale con Il Fatto Quotidiano sotto braccio? Cito questa testata perché di trovarne uno che legga Il Giornale non m’è mai capitato.
«Ho smesso d’andare ai convegni di magistrati da quando, su 100 partecipanti, 80 si presentavano con La Repubblica e parlavano solo di politica. Tutti espertissimi di trame, nomine e carriere, tranne che di diritto».

–Quanti sono i giudici italiani dai quali si lascerebbe processare serenamente?

«Non più del 20 per cento. Il che collima con le leggi sociologiche secondo cui gli incapaci rappresentano almeno l’80 per cento dell’umanità, come documenta Gianfranco Livraghi nel suo saggio Il potere della stupidità».

–Perché ha aspettato il collocamento a riposo per denunciare tutto questo?

«A dire il vero l’ho sempre denunciato, fin dal 1970. Solo che potevo pubblicare i miei articoli unicamente sul mensile Diana Armi. Ha chiuso otto mesi fa».

LE URLA DAL SILENZIO
http://urladalsilenzio.wordpress.com/tag/intervista-edoardo-mori/ - con Alfredo Cosco

IL VOSTRO UFFICIO STAMPA

sabato 20 ottobre 2012

Previsioni di Giustizia !

Vicino Perugia, una barista ha reagito ad un tentativo di rapina, un complice fuori a far da palo ed un rapinatore nel Bar, lei ha steso con un colpo di Judo il rapinatore, poi, con l'aiuto di un cliente, ha chiamato i Carabinieri per farli arrestare.
Adesso arriverà un giudice che si affretterà a chiedere scusa ai rapinatori, provvederà a far avere un congruo indennizzo, metterà a loro disposizione il sostegno psicologico per il reinserimento nella società civile e farà arrestare la barista per percosse e lesioni. :-(

www.studiostampa.com

martedì 2 ottobre 2012

Enzo Tortora. Dove eravamo rimasti?

di Vito Schepisi
Siamo rimasti al punto di partenza. Siamo su un binario morto. La Giustizia nell'Italia "democratica" stenta ad affermarsi, e si hanno seri dubbi che mai ci riesca. 
C'è una fiction in tv che, riprendendo il Caso Tortora, ripropone sempre la stessa domanda. Tortora dopo anni di persecuzione giudiziaria, già minato nel fisico dalla malattia, ritorna in tv e chiede al suo pubblico: "Dove eravamo rimasti?"
E' la stessa domanda che la gente si pone dinanzi alle sentenze della magistratura italiana, dinanzi alla Giustizia spettacolo, al carcere per gli innocenti, alle faide nelle Procure, alle condanne durissime per chi esprime opinioni, all'irresponsabilità di chi usa il potere e l'autonomia giudiziaria per fini diversi dagli atti di Giustizia, all'uso dei pentiti nelle mani di pubblici ministeri che inseguono i loro teoremi. 

giovedì 27 settembre 2012

Giustizia & Libertà !


Viviamo in un Paese che incarcera chi parla o scrive e libera Assassini, Stupratori, Rapinatori, Truffatori, Corruttori, Ladri, Spacciatori e delinquenti di ogni genere! Aggiungo che tranquillamente in Libertà, si incontrano: Mafiosi, Camorristi, Ndraghetosi e Affiliati alla Sacra Corona Unita oltre, ovviamente, ai soci di varie Associazioni del tipo della Triade Cinese, di Cosa Nostra e della Yakuza Giapponese.
La questione non è se poi uno, dopo la condanna, andrà o meno in galera, la questione è che non possiamo avere una legge che consente, al primo Magistrato che passa, di condannare penalmente una persona per ciò che dice o scrive; se quello che dice o scrive non risponde a verità ne dovrebbe rispondere in sede Civile con una condanna al risarcimento danni.

IL VOSTRO UFFICIO STAMPA

sabato 26 maggio 2012

Giustizia (In)Civile


Una giustizia lenta scoraggia qualsiasi investitore. Sono 1300 i posti da giudice scoperti. La loro carenza è spesso colmata da avvocati prestati alla magistratura in qualità di supplenti. Con la conseguenza che in un processo i giudici sono sempre differenti. La digitalizzazione degli atti processuali, che consentirebbe un risparmio di 84 milioni di euro l’anno, è un processo virtuoso ma ancora in fase sperimentale. Le proposte per innescare un circolo virtuoso, ci sono ma passano attraverso una riforma strutturale, che permetta di risparmiare e reinvestire i soldi per una maggiore efficienza.
Una giustizia snella, rapida e meno costosa ci consegnerà un Paese più ricco e competitivo. Banca Italia sostiene che l’inefficienza della nostra giustizia ci fa perdere un punto di PIL l'anno. Soldi che sarebbero una boccata d'ossigeno in un periodo di crisi asfissiante. Per recuperare un credito commerciale  in Italia occorrono 1200 giorni, in Germania e Francia serve circa un quarto dello stesso tempo. Luciano Colangelo è uno dei soci della “CL Impianti”. Un’azienda romana che si occupa, appunto, di installazione e di manutenzione di impianti elettrici urbani ed industriali. Da quattro anni deve riscuotere un credito per un lavoro in subappalto di 130 mila euro, un quarto del suo fatturato annuale. Secondo i tribunali italiani la sua è una causa giovane. Anche la sua azienda è giovane e senza quel credito rischia di fallire.
Ma perché la giustizia italiana è al collasso? Sono quasi 9 milioni i processi da smaltire (5,5 solo nel civile), per definire un contenzioso civile servono in media 7 anni e 3 mesi. Per emettere una sentenza in una causa di fallimento non bastano 9 anni. Una giustizia lenta ed incerta scoraggia qualsiasi investitore estero che voglia entrare nel nostro mercato. Poi c’è un problema di organico. Sono più di mille i ruoli da giudice scoperti. La loro carenza è spesso colmata dai Got (giudici onorari del tribunale), avvocati prestati alla magistratura in qualità di supplenti.
Lo scorso marzo l’istituzione della mediazione civile non ha dato i frutti sperati e la digitalizzazione degli atti processuali è un processo virtuoso ma ancora in fase sperimentale. Una volta a regime consentirà un risparmio di 84 milioni di euro l’anno. Riformare la giustizia significa anche rivedere la geografia giudiziaria: accorpare i tribunali più piccoli comporta un risparmio di risorse e di personale da destinare in altri settori. Ma anche una maggiore specializzazione degli uffici giudiziari. La giustizia civile è la giustizia dei cittadini, la giustizia di tutti i giorni. Non va pensata come una zavorra, ma bisogna innescare un circolo virtuoso, attraverso una riforma strutturale, che permetta di risparmiare e reinvestire i soldi per una maggiore efficienza. I problemi sono molti, ma non più rinviabili se vogliamo consegnare al Paese un sistema giudiziario migliore e più giusto.

IL VOSTRO UFFICIO STAMPA

sabato 14 aprile 2012

Perché i Giudici non pagano per i loro errori?


Scandalizzati. Questa è la situazione dei sinistrati italici dopo l’emendamento, votato a scrutinio segreto, che ha riportato l’attenzione sulla responsabilità civile dei giudici.
La domanda è semplicissima: dove è lo scandalo? Cosa c’è di così assurdo nel volersi rivalere sul giudice che sbaglia? Solo nella patetica mente di una sinistra allo sbando può ancora albergare il pensiero che i magistrati siano intoccabili e devono essere lasciati liberi di sbagliare.
Nel 1987, 21 milioni di italiani votarono per la responsabilità civile dei giudici (sull'onda del caso Tortora) ma poi la legge fu svuotata per fare un favore al partito dei giudici. In caso di colpa grave o di palese negligenza, in teoria, i magistrati dovevano pagare per i propri errori: in pratica non è mai accaduto, a meno di qualche sconosciuta eccezione in questi ultimi anni. D'altronde con zero condanne e zero avvocati disposti a credere che un magistrato possa intentare un procedimento serio contro un altro magistrato c’è poco da fare.
Gli intoccabili vanno protetti e la sinistra come sempre si zerbina di fronte ai magistrati. Dai medici ai poliziotti tutti pagano, anche penalmente. I giudici nulla, nemmeno civilmente.
Rilanciamo:
carcere per i giudici che sbagliano in maniera grave e dolosa.
Fonte: http://www.ilfazioso.com/

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